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Covid, etica e consumi: la difficile sfida del Made in Italy
In una situazione di fortissima incertezza, il sistema moda sta provando a ripartire: in primavera sono saltate collezioni, produzioni e sfilate, e la necessità di rimettere a pieno regime il settore si sta scontrando con le nuove paure e una situazione economica che tarderà ad assestarsi.
Di fronte a questa situazione molti hanno proposto di cambiare completamente paradigma, mettendo in discussione il ritmo standard di uscita delle nuove collezioni. La voce più eclatante è stata quella di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, che in giugno ha affermato “Gucci presenterà due collezioni invece che le cinque canoniche, scandite unicamente dall’esigenza creativa”.
A partire da queste considerazioni abbiamo chiesto a Massimo Giglioli, titolare dell'omonimo trapuntificio e ricamificio, un parere sulla situazione attuale, la ripartenza delle aziende e le possibilità che il Made in Italy potrebbe cogliere per guardare al futuro senza perdere la sua identità.
- Come ha reagito la vostra azienda all'emergenza Covid? E che cosa avete "imparato"?
Abbiamo reagito molto bene, anche se ovviamente tutto il mondo deve ancora ripartire, con tutte le difficoltà del caso. Abbiamo sempre creduto in questa filosofia: se noi nel nostro piccolo ci facciamo trovare fermi, contribuiamo alla paralisi del sistema. Per questo nei mesi scorsi abbiamo chiamato a tappeto tutti i Clienti, per mantenere i rapporti professionali e umani.
Detto questo, tutti hanno reagito al Covid in maniera diversa. Si tratta di uno scenario inedito per tutti, nessuno ha uno storico o tantomeno una ricetta per “uscire meglio” da questa situazione. C’è chi ha sfilato con meno modelli, chi lo ha fatto online o ha rimandato, chi ha immaginato altri scenari:, ognuno ha preso la sua direzione ed è difficile capire ora chi avrà fatto bene. Questa risposta la darà il mercato, ma lo farà col tempo: vedremo a gennaio chi sarà premiato. Se già normalmente l’incertezza è un pericolo, in questa fase lo è ancora di più. Tutti i brand hanno capi iconici che fanno la base del fatturato e permettono di osare durante l’anno proponendo novità e tendenze su altri modelli. Per osare quest’anno ci vorrà il triplo di coraggio: senza le vendite anche un brand affermato fa fatica, ogni azzardo è problematico. In questo caso essere “grandi” non necessariamente vuol dire essere favorito.
- Il futuro della moda potrebbe essere un ritorno al passato, a ritmi più sostenibili? La scelta di Gucci potrebbe essere l'inizio di una nuova era o solo un tentativo tanto coraggioso quanto solitario?
Magari! Quando venne fuori quest’articolo lo feci leggere a mio padre, fondatore di Giglioli più di quarant'anni anni fa. Mi ricordava un aneddoto che mi ripeteva sempre: “Ai miei tempi a gennaio avevo già i tessuti in casa e sapevo quali consegne dovevo fare e quando.” Da un punto di vista di programmazione era un’altra vita. Ora è uno scenario impossibile: oggi arriva l’ordine, dopo una settimana il prodotto da lavorare e dobbiamo essere subito pronti ad iniziare!
- Il ciclo produttivo è legato a doppio filo al numero di uscite, alle collezioni presentate e al loro turn over nei negozi. A fronte di un auspicato aumento di qualità, quali sono i rischi economici che una scelta del genere potrebbe comportare?
Questo potrebbe essere il rovescio della medaglia, perché un rallentamento potrebbe portare ad un taglio enorme a tutto l’indotto.
20 anni fa il Made in Italy poteva andare avanti con 2 stagioni l’anno, tanta era la roba da fare. Se si tornasse alle due stagioni, ora che molti hanno delocalizzato, sarebbe un problema perché oggettivamente non potremmo fare i numeri a cui siamo abituati.
Consideriamo anche che Il mercato è cambiato; prima un capo uguale per tutti poteva andare bene, oggi tutti vogliono differenziarsi e servono prodotti sempre diversi. La personalizzazione ha influenzato l’aumento delle stagioni. O ritornano i numeri di prima, ipoteticamente riportando tutto in Italia, oppure è impossibile fare solo due stagioni senza un drastico ridimensionamento dell’indotto.
- A livello etico, che valore potrebbe avere una scelta del genere? Un ritmo meno frenetico migliorerebbe la percezione diffusa del mondo della moda?
Made in Italy è sinonimo di qualità. Io che ci lavoro devo essere il primo a contribuire a valorizzarlo. Si tratta di una scelta etica che forse deve avvenire prima a livello di consumo e poi di produzione; il problema naturalmente è che ci si scontra con una forbice di prezzo enorme. Purtroppo a volte il consumatore non ha scelte per minimizzare i costi.
- Come valorizzare la differenza a livello qualitativo ed etico?
Lavoro con tanti brand che richiedono espressamente Made in Italy, ma il produttore medio spesso non ci riesce più. Le aziende familiari che erano il vanto del Made in Italy nel mondo erano marchi medi che ora hanno delocalizzato per stare sul mercato; i nuovi medi o si differenziano in modo profondo o fanno Made in China.
Un’ultima considerazione: chi sperimentava inizialmente il Made in China faceva le linee basiche “per tutti i giorni”, con qualità minore, senza rinunciare a produzioni di alta qualità appunto Made in Italy. Oggi questa divisione non c’è più, il Made in China per molti target di consumatori è arrivato a coprire ogni esigenza. In parte è anche colpa nostra: forse la delocalizzazione è stato un gioco che ha premiato qualcuno nel breve ma nel lungo periodo ha fatto male a tutto il settore.